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THAILANDIA by Pietro Scozzari |
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I POPOLI DELL'OPPIO
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VITA DA BONZI |
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QUATTRO ZAMPE D'ASIA |
VITA DA BONZI
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Le ventiquattrore del monaco buddhista |
Bangkok - A prima vista sembrano totalmente indifferenti ai
turisti, abituati come sono a vederne centinaia ogni giorno
nei due più bei templi della capitale thailandese, il Wat
Pho e il Wat Phra Keo. E invece sono proprio i bonzi che per
primi ti rivolgono la parola, soprattutto per migliorare il
loro inglese, come gli ha consigliato il Maestro di Lingue
Straniere. A volte che si risponda assennatamente o meno
alle domande ha poca importanza: ciò che interessa loro è
far pratica. E così capita di rispondere a questionari quasi
meccanicamente, botta-e-risposta a domande senza tono. Se
non, addirittura, di dover riempire con palline e crocette
libri-quiz di scuola, da far correggere al maestro.
Visti i brevi impegni giornalieri - preghiera e studio per
poche ore, il canto del Dhamma (insegnamento del Buddha)
alla mattina e alla sera -, sono lieti di fare un giro per
la città con il visitatore straniero, anche visto che, per
loro, i mezzi di trasporto sono gratuiti - sebbene, per
abitudine, siedano nelle parti posteriori degli autobus e
delle imbarcazioni che attraversano i canali di Bangkok.
Anche per il cibo non hanno spese, offerto loro dai fedeli
ovunque lo richiedano: all’alba si possono vedere i monaci
in fila camminare lentamente attraverso le strade, con la
ciotola e il piatto delle offerte tra le mani. I fedeli,
imbastito un piccolo tavolino di fronte alla propria
abitazione, riempiono devotamente le scodelle di riso, pesce
o frutta, compiendo così la buona azione quotidiana.
Per le famiglie religiose l’offerta al bonzo in certi casi
può equivalere al mantenimento di un componente in più della
famiglia. Questa offerta viene fatta dal fedele per
acquisire merito (tham bun) nell’ascesa - buddhista e indù -
del ciclo delle rinascite: colui che in vita si sarà
comportato adeguatamente, compiendo buone azioni, avrà una
strada più breve, un ciclo più corto di reincarnazioni,
prima di raggiungere lo stato meditativo di illuminazione.
Il bonzo, nel ricevere il cibo offertogli, non ringrazia: è
lui che fa un favore al fedele, degnandosi di ricevere
l’elemosina e permettendogli di guadagnare dei meriti. Solo
due (o addirittura uno, per gli appartenenti alla setta dei
Thammayut) sono i pasti che i monaci thailandesi consumano
ogni giorno: il primo all’alba, il secondo entro
mezzogiorno, consumato in tarda mattinata, rapidamente e in
silenzio, nel refettorio del monastero. Ai monaci è permesso
mangiare esclusivamente i cibi raccolti con le offerte, a
eccezione di quelli appartenenti alla setta dei Mahanikais:
a costoro viene consentito anche il consumo di cibi ottenuti
in altri modi. Ogni volta che un monaco entra in contatto
con un qualsiasi oggetto - riceva del cibo, vesta un
indumento, porga qualcosa a qualcuno - deve concentrare il
proprio spirito, come in una pratica meditativa, per non
provare alcun piacere: si deve servire dell’oggetto
esclusivamente per necessità, e non per una forma di gioia
personale. In passato, quando in certi Paesi buddhisti l’uso
dell’orologio al polso non era ancora diffuso, alcuni monaci
inventarono uno stratagemma per mangiare anche dopo
mezzogiorno, soprattutto durante la stagione delle piogge
quando, a volte, non si vede il sole per molti giorni.
Sedutosi con le spalle al sole, e domandato a un passante se
già fosse mezzogiorno, il viandante, per evitare un senso di
colpa o un rimprovero per non avere seguito la legge
dell’elemosina, elargiva ulteriore cibo al monaco, anche se
era pieno pomeriggio: questi, secondo la propria coscienza,
si sentiva in diritto di soddisfare l’appetito.Dopo i pasti
e una breve ‘siesta’, inizia il lavoro vero e proprio: la
meditazione con i novizi e lo studio dei testi sacri. La
meditazione può assumere forme diverse (inspirazioni ed
espirazioni controllate, autoipnosi sui colori o su punti
luminosi, riflessione su temi come la morte o la bontà, o su
parti del proprio corpo), e il suo scopo ultimo è quello di
‘guarire’ dalle malattie dello spirito: la paura, la
lussuria, il desiderio, l’ira. Lo scopo principale del
monaco buddhista è, appunto, quello di estinguere tutte le
passioni, di annullare gli errori, ottenendo una serenità
interiore definitiva. Per raggiungere lo stato meditativo,
soprattutto nei templi moderni - assai frequentati da fedeli
in preghiera e semplici visitatori -, i monaci hanno bisogno
di luoghi appartati, silenziosi, dove nessun elemento
esterno li possa distrarre. Le forme di meditazione sono
innumerevoli ed è il maestro, in base al comportamento
dell’allievo, che consiglia quale seguire.Dopo la
meditazione, alcuni monaci si dedicano all’apprendimento o
all’insegnamento delle arti curative, altri sovrintendono
alla vendita delle effigi sacre - destinate esclusivamente
al mercato interno, in quanto la loro esportazione è
severamente proibita dalla legge -, presso le entrate dei
molti templi. Alcune materie di studio, però, sono poco
consigliabili (soprattutto in passato), in quanto ritenute
profane: l’astronomia, l’astrologia, la fisica, la
matematica, le arti e i mestieri.Per dormire, i monaci hanno
a disposizione delle abitazioni in determinati templi,
suddivisi in specie di quartieri: una grande sala dove
mangiare tutti assieme e il villaggio-dormitorio, in cui gli
alloggi sono simili a palafitte in legno. Una casa
all’interno del wat (il monastero) può ospitare da uno a
dieci bonzi, e alcuni templi ne contano fino a cinquecento.
Ci sono poi i servizi igienici, decisamente spartani.
Minuscola, circa un metro per due, è la casetta per la
meditazione, in cui ci si ritira per un’ora al giorno in
compagnia del Maestro di Meditazione. Di fianco ai templi
più grandi si possono trovare anche l’infermeria, la sala
per le riunioni collettive e, a volte, persino quella per il
computer, utilizzato per rintracciare gli indirizzi dei
monaci disseminati nel Paese. Verso il calar del sole, i
religiosi si riuniscono nuovamente per la preghiera serale,
quindi si ritirano nei loro alloggi, per studiare o
dormire.In tutta la Thailandia, su una popolazione di circa
cinquanta milioni di abitanti, i bonzi sono duecentomila e,
come tutti i thailandesi, hanno un’origine mista: cinesi,
thailandesi veri e propri, birmani, laotiani e bengalesi.
Esiste poi un’ulteriore distinzione per quanto riguarda la
provenienza: chi risiede nella città indossa la tunica
arancione vivo (che ne copre altre due, di tinte leggermente
diverse, pendendo sulla spalla sinistra e lasciando nudi
spalla e braccio destro); chi, invece, viene dalle campagne,
porta una tunica beige-marron chiaro. Le suore buddhiste
sono, in confronto agli uomini, una esigua minoranza,
vestite di bianco e, come i ‘colleghi’, con il cranio
rasato. Usano camminare sempre con un ombrello in mano per
proteggersi dal sole cocente o dalla forte pioggia dei
monsoni. Buddha disse ad Ananda, suo discepolo prediletto:
«Non conviene permettere alle donne di abbracciare lo stato
religioso: altrimenti le mie istituzioni non dureranno a
lungo».Nei riguardi delle donne i bonzi uomini hanno un
rapporto che potremmo definire di ‘non belligeranza’: si
ignorano a vicenda, non le guardano o vi guardano
attraverso, pur riconoscendone la nota bellezza nei discorsi
con lo straniero. Quando però, per forza di cose, sono
obbligati a colloquiarci, i monaci appaiono nervosissimi, si
mangiano le unghie mentre parlano o si trastullano le
orecchie con le dita, la distanza minima è un metro, e lo
sguardo schivo è diretto al cielo o a terra. Questo
comportamento deriva dalla proibizione di toccarle e di
essere toccati: se una donna desidera porgere qualcosa a un
bonzo, l’oggetto va appoggiato nei pressi del monaco, a una
distanza tale che egli possa raccoglierla, e non consegnata
direttamente. Secondo l’insegnamento del Buddha ad Ananda, i
bonzi non devono guardare le donne perché «attraverso gli
occhi la concupiscenza trova la via al cuore e scuote i più
saldi propositi.... quando, in tali occasioni, un monaco è
obbligato a parlare, consideri come madri quelle che sono
vecchie abbastanza da considerarsi sua madre, come sorelle
maggiori quelle che appaiono un po’ più anziane di lui; come
sorelle minori o figlie quelle che sono più giovani».
L’eliminazione della bramosia attraverso l’annullamento dei
desideri, la rinuncia totale al desiderio, il distacco
assoluto da tutto ciò che si desidera sono dogmi
fondamentali del buddhismo che, tuttavia, si scontrano con
una vita sempre più frenetica e consumistica, come quella
odierna della società thailandese.L’età dei monaci va dai
cinque anni in poi, ma ‘bonzo’ si può essere chiamato
solamente dopo il ventesimo anno d’età: prima si è e si
rimane ‘novizi’. Per una famiglia avere almeno un figlio
monaco costituisce un grande motivo di orgoglio e merito
nell’accorciare il ciclo delle reincarnazioni. La durata del
noviziato dipende dalla condizione economica della famiglia,
che non sempre può permettersi di pagare gli studi del
figlio per anni. È infatti nei templi che i bambini iniziano
la loro educazione, imparando a leggere e scrivere ripetendo
le formule sacre.
Dopo lo studio gli impegni sono veramente pochi. Molte ore
vengono trascorse su brandine a sonnecchiare o a leggere il
giornale o, persino, ad ascoltare musica con un modernissimo
e tecnologico iPod. Certo che fa una bella impressione
vedere un bonzo, così abituati come siamo a relegarli in un
alone di mistico passato, avere a che fare con la
tecnologia, sia questa sotto forma di uno stereo o di un
telefono, ma anche di un semplice tubo per innaffiare i
prati.
In realtà il Buddhismo, più che una vera e propria
religione, sarebbe da considerarsi come un sistema
filosofico e un codice di moralità. Questa dottrina nacque
attorno al 500 a. C. nel Nord dell’India, quando Siddhartha
Gautama, di origini principesche, ricevette l’Illuminazione.
I buddhisti ritengono che l’Illuminazione sia il massimo
traguardo di ogni essere vivente. Il Buddha (ce ne furono
diversi nel corso del tempo) non scrisse mai alcuna raccolta
di leggi o comandamenti, per cui, in seguito, si crearono
scissioni all’interno della dottrina. Oggi esistono due
scuole principali di buddhismo: la Theravada o Hinayana (la
‘Dottrina dei Decani’), secondo la quale il sentiero verso
il Nirvana (la pace finale, scopo ultimo di ogni buddhista)
è una ricerca da svolgere individualmente; e la Mahayana, la
quale afferma che solo gli sforzi uniti di tutta l’umanità
porteranno alla salvezza, secondo una scuola indiana più
recente. Quest’ultima è seguita in Vietnam, Corea, Giappone
e Cina, mentre la prima, di stampo più ‘classico’ (deriva
direttamente dalle scuole indiane antiche), è largamente
praticata in Thailandia, Cambogia, Laos, Sri Lanka e
Birmania. Esistono poi altre interpretazioni del buddhismo,
come quella indù-tantrica diffusa in Tibet e seguita in
Nepal. In India il buddhismo ebbe un momento di larga
diffusione circa dieci secoli fa sotto l’imperatore Ashoka,
ma in seguito praticamente scomparve, a causa di una
penetrazione superficiale tra la gente e al forte richiamo
dell’induismo.
Il riti del buddhismo acquistano sfumature differenti a
seconda dei Paesi di origine dei bonzi. In Thailandia, per
esempio, i monaci offrono alle effigi sacre oli profumati,
candele, incensi, fiori di loto, e applicano sulle statue,
sui bracieri (e spesso anche sugli autobus) minuscoli
quadratini di carta dorata che, a quanto si dice, portano
fortuna. A sera, quando il tempio chiude ai fedeli, alcuni
addetti raschiano la spessa corteccia dorata dalle statue,
accumulatasi durante la giornata, per far spazio a quella
del giorno seguente. L’intero kit per le offerte è in
vendita per i religiosi e per i fedeli all’entrata del
tempio, e gli incassi vengono devoluti ai bisognosi o
utilizzati per ristrutturare i templi (in Thailandia si
calcola che esistano ben 32.000 monasteri).
I testi liturgici, base del rito buddhista, fanno capo a
quattro famiglie principali: i saluti e le lodi, le
dichiarazioni, i voti e i testi di protezione. Tutti i bonzi
devono seguire cinque comandamenti - validi anche per i
semplici fedeli -, da osservare con assoluta rigidità: il
divieto di uccidere qualsiasi essere vivente, di rubare, di
provare lussuria, di dire cose non vere e di bere bevande
alcoliche. A questi cinque se ne aggiungono altri due,
validi soprattutto durante i giorni festivi: non devono
assistere a spettacoli di danza, di canto o di musica, e non
devono decorare il corpo con fiori o profumi. Inoltre, i
bonzi non possono dormire su letti alti e larghi, né toccare
oro o denaro, non possono attribuirsi doni sovrannaturali o
spacciarsi per santi, e sono obbligati a seguire una
rigorosa continenza. Quando, per necessità, il monaco è
costretto a ricevere o a porgere del denaro, lo dovrebbe
fare sempre con le mani coperte da un fazzoletto. Tra gli
altri divieti si annoverano quello di scavare la terra
(eccetto in luoghi sabbiosi, ove non c’è rischio di uccidere
qualche animale), sputare sull’erba fresca o nell’acqua (per
lo stesso motivo), tagliare alberi o erba (che servono a
mantenere in vita altre creature), cavalcare o viaggiare su
un veicolo a trazione animale
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Il rito |
Per i bonzi cinesi l’usuale Buddha thailandese - piuttosto
snello e dai lineamenti delicati - si trasforma in un uomo
corpulento, comodamente seduto e dall’aria beata, al quale
si prega tenendo fra le mani due legnetti che combaciano fra
loro, di colore rosso e di forma convessa: a fine preghiera
vengono lasciati cadere a terra, così da rispondere, a
seconda di come questi rimangono girati, se la richiesta al
Buddha sia stata accettata o meno (sì/no/forse). Per sapere
come comportarsi durante la giornata, invece, i fedeli
scuotono - inginocchiati per circa un minuto - un cilindro
contenente asticelle numerate: se ne estrae una dalla
fessura, a cui corrisponde un cassetto di un mobile,
numerato a sua volta e contenente gli aforismi della
giornata, stampati su foglietti.Gli stessi templi fungono,
oltre che a luoghi di meditazione e di studio, anche da
cimiteri. Le urne cinerarie vengono cementate in file su
apposite colonnine, l’una di fianco all’altra, solitamente
nei pressi di piccole nicchie votive, alle cui effigi sono
offerti minuscoli Buddha di terracotta o in plastica, dorati
o argentati.I monaci buddhisti, in passato, erano gli unici
insegnanti e, di conseguenza, le donne non ricevevano alcuna
educazione, non potendo avere il minimo rapporto con i
maestri: né avvicinarvisi, né parlarci. L’educazione di base
che il bonzo oggi riceve è quella dello studio del Pali, una
lingua di origine indiana, veicolo della diffusione del
buddhismo, propagatosi dallo Sri Lanka in tutto il Sud-est
asiatico sette secoli fa. La maggior parte dei monaci,
tuttavia, prosegue e completa gli studi, frequentando la
scuola superiore o, magari, l’università. Quasi tutti i
giovani, inoltre, studiano una lingua straniera - l’inglese,
nella stragrande maggioranza dei casi -, ma con grande
fatica: il thai ha suoni troppo differenti dalla lingua
anglosassone.Diventare bonzo non è difficile, e quasi tutti
i thailandesi - re compreso - lo sono o lo sono stati nel
corso della vita, per un periodo minimo di tre o quattro
mesi: essere monaci costituisce quasi un obbligo morale per
ogni cittadino thailandese. Secondo la tradizione, il
momento migliore per iniziare la propria condizione di
monaco coincide con l’inizio della Quaresima buddhista
(phansaa), che incomincia in luglio e corrisponde al periodo
delle piogge. La durata media di permanenza nel monastero
dovrebbe essere di tre mesi, ma oggigiorno molti uomini vi
rimangono per una sola settimana o due, visti gli altri
impegni (lavoro, famiglia): il tempo strettamente necessario
per guadagnare un po’ di merito e abbreviare il ciclo delle
reincarnazioni. Altri monaci, al contrario, rimangono tali
per tutta la vita. Il periodo ottimale per iniziare lo
status di monaco sarebbe quello compreso tra la fine degli
studi scolastici e l’inizio dell’attività lavorativa o il
matrimonio. Tuttavia oggi, a quanto dicono gli stessi
monaci, sembra che la pressante ricerca di lavoro distolga
le persone dal partecipare in prima persona alla vita
religiosa
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Non solo in Thailandia |
Negli altri Paesi in cui il buddhismo è diffuso, piccole e
grandi variazioni - oltre che sul piano filosofico e
dogmatico - investono i riti quotidiani dei monaci, il loro
abbigliamento, le caratteristiche esteriori, quelle più
appariscenti e riconoscibili anche da chi non segue la loro
religione. In Birmania (oggi Myanmar), Paese impregnato da
un buddhismo sentito in profondità, uomini e donne passano
periodi di ritiro nei monasteri più volte nel corso della
propria vita. I primi indossano tuniche color amaranto o, i
più stravaganti - molti, fra questi, i novizi - rosso fuoco:
la scelta della tinta viene lasciata al gusto
dell’individuo. Le donne (methilayin), invece, indossano
lunghe tuniche di un rosa confetto e, così come gli uomini,
passeggiano sempre con grandi ombrelli fatti a mano, per
proteggersi dai raggi solari e dalle intemperie. Un tempo,
al posto dell’attuale ciotola per le offerte, usavano una
piccola sporta rotonda e piatta, portata sulla testa (ancor
oggi se ne vede qualcuna). Un antico proverbio birmano
diceva: «Ti farai monaca solo nel caso che perdessi il tuo
bambino, o tuo marito ti abbandonasse, o la tua bottega
facesse fallimento, oppure tu incorressi in gravi
delitti».Se paragonati ai bonzi thailandesi, quelli birmani
- forse per una maggiore curiosità nei confronti dei turisti
occidentali, nel Myanmar assai meno numerosi - sembrano più
stravaganti ed estroversi: non temono l’avvicinarsi di una
donna occidentale, la loro curiosità e la voglia di
scambiare opinioni su mondi così distanti è troppo forte per
impedire di mantenere quel distacco caratteristico dei
thailandesi.
I monaci birmani seguono una gerarchia di sei famiglie: gli
shin, i postulanti, che indossano l’abito da bonzo anche
solo per un breve periodo; i pasin, ammessi ufficialmente
nell’ordine; i phongyi, bonzi da almeno dieci anni; i saya,
gli abati dei monasteri; il thathanabaing, il superiore
generale, un tempo nominato dal re birmano: è lui che dirige
gli affari dell’ordine e della religione di tutta la
nazione.Un accessorio che spesso viene usato dai monaci
birmani è un grande ventaglio amaranto a forma di foglia di
loto, ricavato da una foglia di palma di talipot (da cui il
nome di talapoini, dato dai navigatori portoghesi ai bonzi):
questo servirebbe a coprirsi il volto quando incontrano
delle donne. I bonzi birmani, a differenza dei ‘colleghi’
thailandesi, passano la maggior parte dell’anno nel loro
convento (ponggyikyaung), dedicando i tre mesi della
stagione delle piogge - da luglio a settembre - a una vita
di studio e di meditazione più intensa.
In Nepal e in Tibet gli ordini monastici sono caratterizzati
da altre influenze, storiche e culturali, che ne hanno fatto
una classe più riservata, grazie anche alle pesanti
persecuzioni subite dopo l’occupazione cinese. I monaci
tibetani, anch’essi piuttosto abituati al turismo - così
come quelli thailandesi -, mantengono un certo distacco con
gli stranieri, e indossano tuniche amaranto su vesti gialle.
Il Tibet, almeno fino all’arrivo dei cinesi (1959), è sempre
stato un Paese teocratico, nel quale il Dalai Lama (che
esercitava anche il potere temporale) e i religiosi godevano
la più alta considerazione. Il clero era posto in cima alla
scala sociale e godeva di privilegi enormi. Circa un quinto
o un sesto della popolazione tibetana aveva fatto il monaco:
almeno uno, cioè, dei figli minori, non avente diritto
all’eredità della famiglia, destinata al maggiore.
All’interno del clero oggi vige una gerarchia piuttosto
rigida, con un’élite colta e ricca e un ceto basso di
manovalanza, spesso semianalfabeta, con ruoli di tuttofare e
di domestico. Tra i bonzi tibetani e nepalesi alcuni
scelgono la via dell’eremitaggio - per un certo periodo -, e
questo dà loro grande prestigio; altri, invece, si possono
sposare e conducono una vita pressoché laica: coltivano i
campi, si occupano degli affari e si recano al tempio solo
nei momenti di preghiera. Questi possono essere riconosciuti
per i lunghi capelli intrecciati.
La maggior parte dei bonzi tibetani (in buona parte
rifugiatisi nel vicino Nepal), però, segue l’iter classico
monastico: entrati in un monastero in tenera età - attorno
agli otto anni -, sono affidati come novizi dalle famiglie a
un maestro che insegna loro a leggere, scrivere e imparare i
testi sacri a memoria. L’ingresso effettivo nell’ordine
avviene attorno ai quindici anni - quando il futuro monaco
rinuncia al mondo -, ma è solo dai vent’anni in poi che
diventa un bonzo regolare. Nonostante i voti siano perpetui,
nella pratica questi possono essere annullati su richiesta
del monaco. Ciò avviene spesso in occasione della morte del
fratello maggiore: rinunciando ai voti, il bonzo può
impossessarsi dell’eredità e della moglie del congiunto
scomparso. I monaci tibetani vivono in grandi monasteri
detti puri, separati da quelli dei bonzi sposati.
In India, Paese dominato dall’induismo e dall’Islam, il
buddhismo sembra non avere spazio, e le piccole comunità
monastiche vanno via via scomparendo, alimentate ogni tanto
solo dalla visita di qualche monaco proveniente dal vicino
Nepal. Il buddhismo si diffuse nell’India orientale - nel
Bengala, nell’Orissa e nel Bihar - a partire dall’VIII
secolo d. C., ed ebbe un’impronta tantrica. Qui resistette
fino a circa il 1200, quando, in seguito all’invasione
musulmana - che portò alla distruzione e all’incendio dei
monasteri - scomparve quasi definitivamente. Ove sopravvisse
si fuse all’induismo dilagante.
In Cina il buddhismo ha visto grandi stravolgimenti
dall’avvento della Repubblica Popolare (1949): il governo ha
integrato la dottrina nella cultura ufficiale di stato, per
farne un utile collante fra le molte etnie credenti - dal
Tibet alla Mongolia, dall’India al Sud-est asiatico.
Appropriatosi delle terre del clero, il governo cinese ha
inserito i monaci nel lavoro produttivo e, di conseguenza,
molti bonzi sono fuggiti ad Hong Kong, Taiwan e Singapore.
Tuttavia, seppure integrato in un sistema centralizzato, il
buddhismo è riuscito tenacemente a sopravvivere in numerose
aree del colosso asiatico: basti pensare che il numero dei
monaci (vestiti di giallo gli uomini, di grigio le donne) si
aggira sul mezzo milione di unità.
E poi c’è lo Sri Lanka, culla del buddhismo, dove questa
dottrina ritornò proprio dai Paesi in cui era stata
trasmessa, dopo un lungo buio periodo di abbandono. Anche
qui, così come in Vietnam, in Laos, in Giappone, in Corea,
in Cambogia e in Mongolia, ogni monaco segue riti e possiede
caratteristiche variabili da regione a regione, secondo un
unico, antico insegnamento: quello dell’’Illuminato’,
Siddharta Gautama, il Buddha.
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Pubblicato su Tutto Turismo, Frigidaire |
GALLERIA FOTOGRAFICA
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MERCATI PER
TUTTE LE TASCHE
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Ufficialmente ‘Chatuchak Market’, noto ai più semplicemente
come ‘Weekend’ Market di Bangkok, è una specie di città
nella città, facilmente raggiungibile con l’ottimo Skytrain
della metropolitana (bts.co.th, fermata al capolinea Mo
Chit, poi attraversate a piedi il piccolo giardino che
immette nel mercato; oppure la subway fino alla stazione di
Chatuchak Park). Oltre 15.000 spazi espositivi e oltre
200.000 visitatori ogni sabato e domenica, queste le cifre.
Tirato a lucido - anni fa era una babele in cui si potevano
reperire pure animali semi-estinti, oggi ripulito, solo con
animali leciti e con un buon ordine -, il mercato è diviso
in settori, con tanto di piantina di facile lettura regalata
in più punti. La parte forse più interessante è quella
dedicata agli animali domestici, nel cuore della struttura.
A prezzi da primo mondo troverete legioni di cagnolini e di
gattini spettacolari, cotti dal caldo e boccheggianti sotto
i ventilatori. Guardare ma non accarezzare, come dicono più
cartelli: le bestione sono molto sensibili alle malattie
portate dalle mani sconosciute. Fanno da contorno i
negozietti specializzati in pets (ossi a forma di palla da
baseball, completini da mandarino cinese per il capodanno…).
Rimanendo in zona e in tema moda, cercate l’eccentrica
signora che espone e vende scoiattoli… vestiti. La signora
non tollera macchine fotografiche e videocamere (ha messo un
cartello No photo/No video per ogni scoiattolo della
collezione), e chissà che cosa ne pensano gli scoiattoli
degli abiti e dei cappellini che devono indossare. Lasciato
lo zoo, troverete di tutto: cibo (banane fritte, pollo
fritto, involtini primavera, tè dolcissimo, spiedini di
gamberoni, cocco e gelato di cocco dentro al cocco,
mini-wurstel, spiedini di maiale a 10 bath, circa 2 euro),
mobili di legno, abbigliamento e accessori da cowboy
(incluse band musicali di Thai-cowboy, come la Blue Mountain
Boys), abbigliamento militare, miele in tranci di favo,
immagini buddiste, lampade, sculture Alien-style fatte con
ingranaggi meccanici riciclati, quadri, t-shirt con ogni
colore e slogan ‘simpatico’ ipotizzabile (per es. quella con
il paragone Your girlfriend - donnina stilizzata come da
insegna per toilette femminile, con gonna inamidata - and My
girfriend silhouette prosperosissima da ballerina di lap
dance). Qua e là, finalmente, qualche banchetto per la
responsabilità ecologica, con esempi di avorio vero e finto
(ovviamente per educare, non per vendere)
Nel Nord, a Chiang Mai e a Chiang Rai, altre istituzioni
sono i locali Night Bazaar, specie di mercati gemelli nelle
due maggiori città settentrionali (entrambi in centro). Il
brulicare delle loro attività inizia al tramonto e va avanti
fino a notte fonda. Oltre a tutto l’artigianato dell’intera
Thailandia, in particolare delle etnie della regione del
‘Triangolo d’Oro’ (Akha, Yao, Lisu, Lahu) e con qualche
influsso dal vicino Myanmar, entrambi hanno spettacoli di
danze tradizionali al lume di candela e un vasto settore
dedicato all’alimentazione. Qui fanno la parte del leone i
piatti di mare e, per chi ama l’esotico, ogni insetto di
Sora Natura fritto e croccante (scarafaggi, scorpioni, bachi
da seta, cavallette ecc.). Voci di corridoio locali
innominabili ci hanno riferito di come i ristoratori del
Night Bazaar di Chiang Rai vadano a recuperare l’olio di
scarto dai ristoranti della città per friggere il tutto,
dunque… Rimanendo in tema di shopping, potete sbizzarrirvi
tra belle lampade colorate, decorazioni natalizie,
animaletti di tessuto ripieni di sabbia, armi da taglio
(popolarissime le stelle da ninja, da NON mettere nel
bagaglio a mano), modellini di Transformers fatti con il fil
di ferro, abbigliamento e bigiotteria a vagonate. Se
sopravvissuti alle fatiche dello shopping e, soprattutto,
all’olio riciclato dei ristoranti, potrete ritemprarvi con
un fish massage, dove mille pesciolini riporteranno in vita
i vostri arti inferiori nutrendosi delle vostre pellicine
morte (solletico permettendo) |
Pubblicato su Panorama Travel |
GALLERIA FOTOGRAFICA
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QUATTRO ZAMPE
D'ASIA |
Viaggio tra i diversi stili di vita dei quattro zampe
asiatici. Dalla Birmania alla Thailandia, dall’India al
Vietnam, dalla Cina al Giappone. Nei templi, sulle barche,
in moto, inseguendo la moda. |
La pagoda, il tempio buddista o scintoista, il
mini-tempietto eretto a proteggere la buona fortuna di un
supermercato o di una compagnia di assicurazioni. Tutti
offrono ombra e tranquillità, un pacifico luogo in cui
sonnecchiare, indisturbati dal rumore e dai pericoli del
mondo di fuori. A volte, addirittura, una garanzia di vitto
e alloggio. Dove ci troviamo? In lungo e in largo tra i
quattro zampe asiatici, per capire come vivono (o
sopravvivono) e per conoscere da vicino come la gente si
occupa di loro e li accudisce, a volte, con amore.
IL TEMPIO, UN RIFUGIO MULTIUSO
In Asia non è difficile imbattersi in qualche ‘gattara’
(‘cagnara’?), spesso più innamorata degli animali che non
degli umani, che si dedica a sfamare cani e gatti altrimenti
lasciati alla caccia tra i sacchi delle immondizie. In
alcuni casi, addirittura, gli ospiti a quattro zampe
diventano motivo di attrazione a sé per il luogo, oltreché
ospiti. Come nel caso del monastero dei ‘gatti saltanti’,
all’anagrafe Nga Phe, sul lago Inle, in Birmania. Questo
monastero a palafitta ospita un’esigua comunità di bonzi che
hanno ammaestrato una legione di gatti a saltare su comando.
Al grido jump! (‘salta!’) gli animali balzano come leoni al
circo attraverso cerchietti di plastica posti a mezz’aria o,
in alternativa, tra le braccia dei monaci, unite a circolo.
L’attività esalta i turisti di passaggio ed è forse per
questa ragione che i bonzi ammaestrano un numero sempre
maggiore di gatti. Molti felini, tuttavia, hanno un’aria
piuttosto annoiata nel ripetere questa pratica - sempre più
frequente, man mano che si sparge la voce tra i turisti -, e
spesso bisogna gridare jump! tre o quattro volte di seguito,
unendo qualche spintarella sul posteriore, prima che si
decidano a saltare. A Bali sembra che nessun cane di strada
faccia la fame: le offerte lasciate dai fedeli indù a ogni
angolo di strada - fiori e incensi, ma anche ottimi
biscottini - sono specie di croccantini gratuiti,
disponibili a ogni ora del giorno e della notte. E poi:
ombra e pace, nei templi cinesi della Malesia così come in
quelli buddisti cambogiani. Ogni gatto o cane, lì, lontano
dall’inferno del traffico delle megalopoli, sembra trovare
un quieto angolino di paradiso.
CANI 'GALLEGGIANTI'
Cani galleggianti, si potrebbero chiamare, quelli di certe
località del Vietnam. Sull’isola di Cat Ba, nella Baia di
Halong, così come nel vasto Delta del fiume Mekong, molte
persone commerciano, cucinano e dormono a bordo di
imbarcazioni di tutte le dimensioni. A volte specie di
zatteroni rettangolari - per esempio nella Baia di Halong -,
adibiti ad abitazioni e, al tempo stesso, a piscine in cui
allevare pesci. Da bravi ‘migliori amici dell’uomo’ i cani
si sono adattati a questa convivenza fluttuante. Il loro
territorio è qui più che mai marcato, assai più che sulla
terraferma. Chi invade le loro quattro assi di legno, se
sconosciuto, viene accolto da sonori latrati pieni di
minacce. Ma la barca è anche luogo di gioco - quando gli
animali a viverci sono più d’uno -, di pasto, di toilette.
Né più né meno che per i ‘colleghi’ umani.
TUTTI IN SELLA, NEL TRAFFICO
Cani centauri, invece, potrebbero essere chiamati quelli di
molte città asiatiche, abituati come i loro proprietari
tailandesi, indiani o indonesiani a muoversi in moto. Nel
traffico matto di questi Paesi intere famiglie e merci da
bastimento viaggiano tutte assieme appassionatamente su un
unico scooter, insensibili a leggi, omologazioni, caschi,
multe e pericoli delle due ruote. La scarsità di mezzi rende
impossibile scelte di trasporto più onerose, dunque tutti
(bambini, cani, secchi, scope, frutta, pesci ecc.) in sella,
si parte! Nel Nord della Tailandia, in particolare nella
regione di Chiang Mai, oppure nella hippie Goa, sembra
piuttosto frequente l’usanza di addestrare il proprio
animale a viaggiare come un umano in miniatura, né più né
meno di un bambino. Zampe anteriori puntate sul serbatoio,
quelle posteriori sul sellino della moto o sulle gambe del
proprietario-autista, capelli al vento… Come cani da circo,
nel tempo questi animali hanno sviluppato capacità da
equilibristi. A ogni sosta al semaforo costituiscono
l’attrazione principale del traffico e dei passanti.
FOLLIE GIAPPONESI E MODA PROLETARIA
La moda, per fortuna, non è un’esclusiva del “Made in
Italy”. In tutta l’Asia l’abbigliamento per pet è in
fortissima crescita, fino a raggiungere le follie esasperate
del Giappone o della Corea del Sud, dove signore di una
certa età e tardo-adolescenti con l’amore per il kitsch
addobbano i loro cagnolini in miniatura come eccentrici divi
di Hollywood. In Thailandia, dove il tenore di vita è più
basso, oltre alla classica moda reperibile nei negozi
specializzati per l’élite che può spendere - con qualche
‘chicca’, come completini da mini-mandarino in occasione del
capodanno cinese, e con qualche punta appariscente, come
abiti da uomo (cane) ragno nella pacchiana Pattaya -, regna
pure una moda ‘proletaria’, accessibile alle tasche dei più.
Anche le famiglie thailandesi o vietnamite più povere si
possono permettere una vecchia maglietta da umano, usata e
non sempre pulitissima, con cui proteggere il proprio cane
nei mesi invernali. Inverno ridicolo, almeno in confronto
alle nostre temperature, ma ‘freddissimo’ per la gente
locale, soprattutto di sera. Verso novembre capita di vedere
cani apparentemente randagi (zero collari o guinzagli, il
marciapiedi come casa) abbigliati con t-shirt da due zampe.
Sembrano portarle con disinvoltura, come se fossero una
seconda pelle.
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Pubblicato su Quattro Zampe |
GALLERIA FOTOGRAFICA
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I POPOLI DELL'OPPIO |
Trekking
fra le tribù del Triangolo d’Oro |
Un ritratto di alcune
fra le tribù che abitano il ‘Triangolo d’Oro’, la zona
compresa fra Thailandia, Myanmar e Laos, il cui principale
mezzo di sostentamento è l'oppio, coltivato e venduto ai
trafficanti locali. La vita di queste popolazioni, minata da
una crescente perdita d’identità grazie a un turismo sempre
più invadente, però, non è incentrata esclusivamente su
questo commercio: tradizioni e riti antichi ancora stentano
a morire. |
LISU |
I Lisu sono una
popolazione di origine tibeto-birmana che vive sulle
montagne nel Nord della Thailandia, nelle province di Chiang
Mai, Chiang Rai, Mae Hong Son e Tak. Sono facilmente
distinguibili dalle altre tribù che vivono nella zona per i
costumi coloratissimi. Arrivarono in Thailandia circa un
secolo fa, partendo dal Tibet e attraversando le province
cinesi dello Yunnan, del Sichuan, e la Birmania. Molti Lisu,
tuttavia, sono rimasti in Cina e in Birmania: i loro
‘parenti’ thailandesi, nel corso del tempo, hanno modificato
diversi costumi tradizionali, soprattutto per quanto
riguarda l’abbigliamento.
Primo giorno - Non mi era mai capitato di svegliarmi perché
un pollo mi cammina sulla faccia, ma nel villaggio Lisu ciò
è normale, anche se alloggiamo nella capanna del capo tribù.
È qui che, dopo una faticosa giornata di trekking, ci siamo
fermati per trascorrere la notte e la mattinata seguente.
Fatto il bagno sotto la cascata poco fuori dal villaggio, e
lavati i vestiti sporchi, una bambina, canticchiando tra sé
Fra’ Martino Campanaro in versione thailandese, imparata da
chissà quale turista, ci accompagna attraverso lo stretto
sentiero che porta alla capanna principale, adibita ad
ospitare i visitatori: è quella del capo del villaggio, la
più spaziosa.A volte i Lisu costruiscono le loro abitazioni
a livello del terreno, altre su palafitte. I letti sono
lunghi sedili di bambù e stoppie, sui quali dormiamo in
quindici, assieme alla numerosa famiglia del padrone di
casa. All'interno della fumosa e annerita capanna si trova
anche la ‘cucina’ - quattro pietre e un braciere -, che
scarica tutto nell'unica grande stanza. Sotto il tetto di
paglia, attraverso fessure, svolazzano vorticosamente alcune
rondini, che hanno costruito il loro nido dentro alla casa,
nel punto di intersezione fra le travi reggenti.I bambini
indossano costumi meravigliosi dai colori luminescenti, e
alcuni hanno lineamenti orientali, mentre altri potrebbero
essere di origine europea. Facciamo subito amicizia, anche
se, per problemi di lingua, non possiamo dialogare: il
linguaggio delle caramelle - che chiamano bubù -, però, è
universale, e qui, sulle colline sperdute, valgono come oro.
La malsana abitudine dei turisti di distribuire oggetti in
regalo ai bambini ha instaurato nel tempo un odioso rapporto
turisti/locali basato sull'elemosina. Ogni scusa è buona per
domandare, ai ‘ricchi’ visitatori, penne, monete (usate più
che altro a scopo decorativo, infilate in lunghe collane),
caramelle, braccialetti, biglie di vetro.
La pulizia è un concetto estraneo alle popolazioni del
‘Triangolo d'Oro’: porci, bufali e galline convivono in
perfetta simbiosi con gli esseri umani, mescolati in una
confusione totale di colori e di mosche, il cui evidente
risultato è una gamma completa di infezioni della pelle,
visibilissima soprattutto sui bambini. I costumi
tradizionali dei Lisu sono caratterizzati da vive tinte a
strisce, che coprono tutto l’abito e confluiscono in una
lunga coda a pompon, annodata all’estremità della cintura
che tiene ferme le gonne. Altrettanto luminosi sono gli
orecchini, costituiti da piumini viola, quasi fosforescenti,
e da una singolare catenella d'argento che, passando sotto
il mento, va da un orecchio all'altro. Le donne, in
particolare, indossano pantaloni neri che arrivano alle
ginocchia, accompagnati da ghette rosse. La mia attenzione è
attirata da una bambina che sta armeggiando con i propri
vestiti, non capisco cosa stia facendo: avvicinandomi, mi
accorgo che si sta ‘lavando’, quasi di nascosto, seduta sul
terreno e scrostandosi - letteralmente - la sporcizia di
dosso con una forcina per capelli, cercando di coprirsi
pudicamente con una coperta.Tutti, nel villaggio, masticano
foglie di betel, che accelera la salivazione e la colora di
rosso: il terreno è, ovunque, a pois carmini. Il gioco
preferito dai bambini Lisu è la fionda, una semplice quanto
efficace ipsilon di legno intagliato. Alcuni bambini scavano
buche profonde per raggiungere la terra umida e farne,
appiattendola con i palmi delle mani, delle palline: queste,
quindi, vengono sistemate su piatti di metallo e lasciate
essiccare al sole, fino a diventare dure come pietre. I
bersagli preferiti, sia dai maschi sia dalle femmine, sono
gli innumerevoli animali che vagano dovunque.
Il capo del villaggio, prima di lasciarci ripartire, ci
descrive qualcuna delle usanze dei Lisu. Lo stregone del
villaggio, oltre a dover conoscere tutto riguardo alla magia
occulta, alla medicina e al rito matrimoniale, è tenuto
anche a saper esorcizzare gli spiriti cattivi insiti nel
bambino appena nato, in occasione del parto. Per fare ciò,
pesta ripetutamente il terreno della capanna in cui il bimbo
è venuto alla luce, scacciando gli spiriti malvagi. Inoltre,
ogni bambino di un anno deve avere un padre adottivo, che
diventa parte della famiglia, dopo aver legato - a suggello
del suo impegno - qualche moneta al polso del protetto, e
ricevuto in regalo un pollo dai genitori. Tutto il
villaggio, poi, è protetto da uno spirito, al quale è
dedicato un santuario apposito, seminascosto in una zona
sacra dell agglomerato.
Per quanto riguarda la vita coniugale, le donne possono
prendere marito già a quindici-sedici anni. Per esternare la
loro volontà in tale senso, devono partecipare a una
cerimonia apposita, durante la quale lo stregone dona loro
un disco d'argento. Viene poi scelta accuratamente la data
del matrimonio, facendo attenzione che sia un giorno di buon
auspicio: non tutti lo sono nel calendario Lisu, e da
evitare, per un buon matrimonio, sono soprattutto i giorni
del Dragone, della Tigre e del Maiale. Nel giorno scelto
dallo stregone, secondo il rito animista dei Lisu, vengono
sacrificati alcuni maiali.
Una volta sposatasi, la donna Lisu perde totalmente la
propria libertà, e diventa, in pratica, una serva del
marito. Non può andare dove desidera né lamentarsi per
alcuna ragione e, se il consorte muore, diviene di proprietà
della famiglia del defunto. Si potrà risposare solo con il
consenso di questa, e la dote pagata dal secondo pretendente
sarà molto alta.
Anche i funerali seguono un cerimoniale stretto e rigoroso.
Il defunto viene seppellito vestito di abiti nuovi e usati,
assieme a cibo e bevande. A seconda della sua età sono
sacrificati polli o maiali, di diversa grandezza. La
processione funebre è capeggiata dall'onnipresente stregone
che, questa volta, stringe in una mano una bandiera di carta
bianca e porta, sulle spalle, una sacca piena di vestiti del
defunto. Più lo scomparso era ricco, maggiore è il volume
dei vestiti che lo stregone si deve caricare addosso. Se il
defunto era molto ricco, allora lo stregone si farà aiutare
da un mulo. Nella famiglia dello scomparso si piange per
alcuni giorni, e chi non lo fa, magari perché proprio non ci
riesce, viene considerato con disonore. Al cimitero si
annuncia in paradiso l'arrivo dell'anima dello scomparso,
con scoppi di ogni genere: petardi e pistolettate. I
familiari continueranno a fare offerte al defunto per tre
anni: entro quel periodo l'anima sarà sicuramente rinata. |
AKHA |
La popolazione degli
Akha vive disseminata in un centinaio di villaggi tra il Sud
della Birmania e il Nord della Thailandia. Sono arrivati
dalla Cina (dallo Yunnan, dove vivono numerosi ancor oggi)
circa un secolo fa, attraversando il Laos, il Vietnam e la
Birmania orientale. Stabilitisi sulle colline thailandesi,
oggi se ne contano circa venticinquemila.
Secondo giorno - L'entrata nel villaggio Akha già fa
presagire un ambiente diverso da quello incontrato nella
tribù dei Lisu, forse troppo abituata alla visita degli
stranieri: un arco rudimentale in legno, presso il quale gli
spiriti - effigi ricavate da tronchi, con sembianze
antropomorfe - presidiano la sicurezza degli abitanti, segna
il confine.
Addentrandosi lungo il sentiero principale, che divide in
due il villaggio, un fatto balza immediatamente all'occhio,
sui volti dei bambini che ci accolgono correndoci incontro,
sulle abitazioni e sugli animali: la forte sporcizia, che
rende tutto più scuro, tingendo l'intero paesaggio di una
tonalità marrone. I bambini giocano fra escrementi di bufalo
grandi come montagne, e i più sembrano averne preso il
colore.
Anche qui troviamo alloggio presso la capanna più ampia, una
palafitta in bambù e paglia, il cui proprietario è il capo
del villaggio. Lo spazio interno è diviso da una parete a
mezza altezza, e una porta mette in comunicazione la metà
riservata alle donne - dove si trova l'altare degli antenati
- con quella degli uomini. È il capo stesso, immediatamente,
che ci narra qualcuna delle loro usanze.
Gli archi, posti uno all'entrata e uno all'uscita del
villaggio, segnano i confini, e ogni anno sono spostati -
generalmente di pochi centimetri - per indicare di quanto
l'abitato sia cresciuto. A volte, però, le vecchie porte
sacre non vengono abbattute o spostate, ma sono lasciate in
piedi, così da formare una specie di corridoi rituali. Ogni
cosa, nel villaggio, ha il proprio spirito: quelli posti
all'entrata - gli spiriti della giungla - servono per
preservare nel tempo la fertilità degli Akha, mentre quelli
presenti in ogni casa proteggono la famiglia che vi abita.
Il culto animista degli Akha vuole che, attraversando gli
archi posti alle entrate del villaggio, gli abitanti si
liberino degli influssi negativi provenienti dall'esterno.
Fra le tante feste del calendario Akha c'è anche quella per
scacciare gli spiriti malvagi, prima della quale si
sacrifica un cane: buoi e galline sono tenuti ‘di riserva’,
qualora di cani, in circolazione, non ce ne siano più.
Secondo il rito animista degli Akha, tre sono i modi per
sacrificare il cane, tutti agghiaccianti. Il primo consiste
nell'impiccagione e nel successivo taglio delle zampe
posteriori, finché l'animale non muore dissanguato. Il
secondo, ancora più crudele, consiste nell'appendere il cane
a una trave, per poi divaricargli la bocca con un bastone e
riversargli acqua rovente nelle viscere. L'ultimo metodo
d'immolazione si risolve nel bastonare sul naso la bestia
dopo averla drogata, fino alla morte. Sta al sacerdote
scegliere il metodo: una volta terminata la cerimonia, il
cadavere dell’animale viene appeso a uno degli archi, e vi
rimane finché non va in putrefazione. La festa per
scongiurare gli spiriti maligni non è, tuttavia, l'unica
causa dell'alta mortalità, presso gli Akha, del ‘migliore
amico dell'uomo’. La carne di cane, infatti, qui è
considerata prelibata quanto quella di qualsiasi altro
animale. Tuttavia, gli Akha ritengono che se la bestia
piangerà al momento dell'uccisione la sua carne non sarà
commestibile. Viceversa, se morirà in silenzio - c'è da
domandarsi come ciò possa avvenire -, sarà squisita.
Sulla collina più alta del villaggio domina una strana
costruzione: tre pali incrociati e una lunga corda, aventi
una duplice funzione: ogni anno, durante la Festa
dell'Altalena, le donne ci si dondolano, appese alla corda
per quattro giorni, festeggiando così l'arrivo dell'anno
nuovo. Gli uomini festeggeranno il loro capodanno
separatamente, senza il divertimento dell'altalena. Ma gli
stessi tre tronchi fungono anche da forca per impiccarvi chi
ruba, e chi compie adulterio o qualche raro omicidio.
Donne e uomini vivono separatamente, anche se sposati.
Mangiano e dormono ognuno nella propria casa: è per questo
motivo che il villaggio degli Akha sembra così grande, anche
se sono in pochi a viverci. La cerimonia nuziale dura tre
giorni, e i festeggiamenti sono imponenti. Solo in questa
occasione le donne si possono vestire di bianco, altrimenti
indossano sempre un vestito nero. Per sposarsi, gli uomini
pagano simbolicamente una moneta d'argento alla famiglia
della sposa. Durante la cerimonia i due siedono al centro di
una grande stanza, e gli invitati (tutti gli abitanti del
villaggio) hanno a disposizione tre palle di riso a testa,
da scagliare contro i due sposi, mentre questi tentano di
consumare il loro pasto nuziale. Durante il primo giorno di
festeggiamenti si uccide un pollo su di un altare, e tutto
il villaggio smette di lavorare. Gli uomini costruiscono una
capanna di bambù da utilizzare come momentanea alcova per i
due, fino a quando non avranno deciso di fare ritorno ognuno
alla casa dei propri parenti. Prima del matrimonio il
rapporto fra uomini e donne è piuttosto agitato, nel senso
che una donna può anche avere tre fidanzati
contemporaneamente: quando, però, avrà deciso quale dei
pretendenti sposare, scoppieranno lamentele furibonde fra
gli insoddisfatti.Grossi problemi sorgono quando una donna
Akha partorisce un bambino deforme o mentalmente ritardato,
con sei dita o con un gemello. Gli Akha sono inorriditi da
tutto ciò, ne hanno un enorme timore, tant'è che
generalmente uccidono questi sventurati sotto gli occhi
della madre, che viene obbligata ad assistere alla scena. In
seguito questa viene mandata in esilio per tre giorni,
vestita di sole foglie: le sarà permesso di fare ritorno
solamente dopo che avrà incontrato qualcuno ‘di buon
auspicio’, che l'avrà fornita di nuovi abiti e di alloggio.
Ma la nuova vita nascerà, per la donna, solo dopo aver
sacrificato tre cani, tre maiali e tre capre. La casa che
ospitava la famiglia e tutti i suoi averi vengono bruciati,
e la donna potrà abitare solo in una nuova piccola capanna
alla periferia del villaggio. Incontrando gli altri Akha non
potrà parlare con loro, né le sarà permesso di attingere
acqua alle diverse fonti del villaggio: per bere dovrà
andare fino alla cascata principale, di solito piuttosto
distante. Quando, eccezionalmente, una delle persone
ritenute ‘anormali’ viene lasciata in vita – di solito
questa fortuna capita solo a quelli nati con sei dita -, la
si utilizza come ‘spaventa-creditori’: se, ad esempio, un
Akha compra a credito un maiale da un altro villaggio, vi
manda a saldare il debito il nato deforme, così che il
creditore - nove volte su dieci - scappi terrorizzato,
rinunciando di conseguenza al denaro.
Nel villaggio Akha la sveglia viene data alle quattro e
mezza, quando tutte le donne si alzano per andare a
raccogliere il riso necessario per la giornata: questo viene
pulito verso le cinque e mezza, battendolo in una vasca di
pietra per mezzo di una lunga leva di legno. Poi c'è la
raccolta dell'acqua, visto che il villaggio, generalmente,
non ha fonti al suo interno. Così tutte le donne - gli
uomini sono appena andati a dormire, dopo una notte passata
a fumare oppio -, si caricano la schiena di zucche vuote da
riempire alla cascata principale. Il resto della giornata
viene trascorso a cucinare, scacciare galline e maiali dal
riso lasciato a seccare, e a masticare foglie di betel. Le
madri non accudiscono minimamente, se non per lo stretto
indispensabile, i loro bambini, e li lasciano scorrazzare
per tutto il giorno nella più indescrivibile sporcizia.
Davanti ai miei occhi uno di essi, di circa quattro anni,
completamente nudo, corre giù per la discesa del villaggio,
inciampa, cade con la faccia sopra ciò che il bufalo, da
poco passato, ha lasciato sul terreno. Si rialza, tocca il
viso, e scoppia a piangere.
Durante il giorno i pochi uomini che ne hanno voglia
lavorano nei campi di riso o di papaveri da oppio, quand'è
la stagione. Ma l'unica attività che sembra davvero
impegnarli, come scende il buio, è un'eterna, intensa, lenta
fumata d'oppio che dura tutta la notte, per addormentarsi,
finalmente, poco prima dell'alba.
Alla mattina il nostro risveglio è a dir poco sconcertante:
ai piedi della nostra capanna un cane è stato ucciso durante
la notte, strangolato con una catena, e adesso un bambino ci
‘gioca’, bastonandolo ripetutamente sul cranio e sui
testicoli. Poi un altro lo afferra per il ‘collare’ che lo
ha strangolato e, dopo averlo trascinato attraverso tutto il
villaggio, lo scaraventa, come fosse spazzatura, giù dalla
rupe.Lasciando il villaggio Akha passiamo attraverso l'arco
d'uscita, stando ben attenti a non sfiorarlo. |
LAHU NYI |
I Lahu vivono in
Birmania e nelle province thailandesi di Chiang Mai, Chiang
Rai e Mae Hong Son. Sono arrivati dalla Cina, passando
attraverso la Birmania durante l'ultimo secolo, e oggi sono
divisi in quattro sottotribù: i Nyi, i Na, gli Shi, e gli
Shele. In Thailandia, tuttavia, sono tutti noti anche con il
nome di Musur.
Terzo giorno - I primi ad accoglierci sono i cani e i
maiali, che fanno da guardia all'entrata del villaggio,
costruito sulla discesa di una collina con poca vegetazione.
Poi arrivano i bambini; sono tutti nudi o vestiti a metà, e
giocano con ogni cosa: bufali, porci, gatti, ma anche con le
immondizie, disseminate ovunque, tra escrementi di vacca e
latrine all'aperto. Anche qui la capanna del capo-tribù è la
più grande, e tutti gli abitanti vi entrano per osservare i
nuovi arrivati. È una palafitta costruita con un bambù
piuttosto elastico, e il tetto è fatto di stoppie e foglie
di palma, necessarie per tenere fuori l'acqua. Al centro
dell'unica grande stanza c'è la ‘cucina’, quattro pietre e
un focolare, adoperato anche per riscaldarsi durante la
stagione fredda. I servizi igienici sono costituiti dai
sentieri che si snodano attorno alle abitazioni. Oggi c'è il
‘dottore’ (un semplice piazzista di medicinali), venuto
dalla città in motocicletta. Espone al capo le sue medicine
- soprattutto contro la malaria - , in gran parte cinesi,
cercando di spiegarne l'uso. Il capo ha ventisei anni e sei
bambini: il primo l'ha avuto a tredici anni, e la moglie è
ancora più giovane di lui. Tutti sono riuniti con curiosità
attorno a noi, e qualche bambino con escoriazioni infettate
dalla sporcizia viene a farsele curare dai nostri
disinfettanti spray, qui considerati un rimedio miracoloso.
I buchi nella cute sono impressionanti, qualsiasi medico
occidentale inorridirebbe solo a vederli. Qui, i bambini, li
indossano con disinvoltura.
È sera, finalmente è giunta l'ora di relax dopo la giornata
trascorsa a lavorare nei campi, e gli uomini, così come le
donne, si concedono una sosta, fumando enormi foglie di
tabacco od oppio, accovacciati ‘alla turca’ in mezzo alla
strada. Gli uomini più giovani e forti, però, sono ancora
nei campi, al lavoro, e vi rimarranno tutta la notte.
Qualcuno, invece, ha un'occupazione specifica all'interno
del villaggio, come fabbricare i fucili da caccia, dalle
canne lunghissime, estremamente precisi.
Il lavoro minorile nel villaggio (e in tutta la Thailandia)
è considerato semplicemente lavoro, senz'alcuna distinzione
per fasce d'età: che tutti lavorino è cosa scontata. Già a
pochi anni i bambini portano a pascolare le mandrie nei
monti, oppure aiutano la famiglia nei campi, soprattutto
durante la stagione della raccolta dell'oppio. Anche in
questa occasione il capo-tribù ci racconta qualche usanza
della sua popolazione.
Il matrimonio viene celebrato in due modi differenti: con
cerimonia - e una grossa dote in denaro -, oppure senza
cerimonia, poche monete e tre polli per dote. Per i primi
tre anni di convivenza la coppia vive alternativamente
presso entrambe le famiglie, per poi decidere con quale
delle due stabilirsi. Molte ragazze (adolescenti), però, non
sono così fortunate da arrivare fino al matrimonio, perché
spesso vengono prima vendute dai genitori ai bordelli di
Chiang Mai o di Bangkok, con o senza il loro consenso,
mediamente per una cifra di 50.000 Bath, un vero capitale
nelle zone rurali thailandesi.
Il villaggio non è autosufficiente, dipende per i consumi in
gran parte dalla città, piuttosto lontana. La sua estensione
è commisurata all'importanza del suo capo: se questi è
stimato il villaggio sarà grande, altrimenti piccolo quanto
la stima che la tribù nutre per lui. Generalmente tutti i
villaggi Lahu Nyi sono piuttosto piccoli. Il capo viene
eletto da un'assemblea di dieci-dodici persone, uomini e
donne, gli stessi che lo sostituiranno se risulterà corrotto
o inefficiente. L'educazione è scarsissima, l'unica scuola è
distante, e i pochi bambini che ci vanno la frequentano per
soli due anni, a partire dal loro decimo compleanno. Anche i
Lahu Nyi, inoltre, adorano gli spiriti (della casa, della
natura), così come un essere divino superiore di sesso
maschile e uno corrispondente di sesso femminile.
I Lahu sono emigrati dal Sud-est della Cina, dal Lang Chan,
una regione autonoma dello Yunnan, circa duecento anni fa,
spingendosi soprattutto in Birmania (dove oggi vivono in
50.000) e, solo ultimamente - dopo gli scontri etnici degli
anni Cinquanta in Birmania -, anche nel Nord della
Thailandia. Inizialmente appartenevano tutti ad un'unica
tribù, quella dei "Gialli": poi si sono divisi in varie
fazioni: quella dei "Neri" - "Rossi" (Nyi), "Neri" (Na) e
Sheh Leh (o Shele) -, e quella dei "Gialli" - "Bianchi" (Shi
Ba Lan) e Ba Keo -, riconoscibili a seconda dei differenti
abiti. I Nyi indossano vestiti neri intrecciati da larghe
strisce rosse, bianche e blu, che corrono attorno al collo e
al petto. Anche i Na si vestono di nero, ma con sole strisce
bianche. Gli Shi si distinguono per le orlature bianche e
rosse, mentre gli Shele hanno pantaloni con lunghe
ginocchiere penzolanti e ghette con tagli di colore blu. I
diversi gruppi parlano dialetti differenti fra loro, ma il
Lahu Na è compreso da tutti. Il motivo della loro incessante
migrazione è la continua ricerca di nuovi terreni da
coltivare: i Lahu sono agricoltori nomadi che sfruttano
troppo intensamente i campi, esaurendone in breve tempo la
fertilità, così da doversi trasferire circa ogni tre anni. I
villaggi, di conseguenza, letteralmente si spostano: a volte
le case vengono smontate e trasportate altrove intere,
altrimenti sono bruciate sul posto e poi ricostruite.
Un'altra causa del loro incessante trasferirsi è dovuta alle
credenze riguardanti gli spiriti malvagi: quando qualcosa
nel villaggio va male - qualcuno, per esempio, dopo aver
fumato troppo oppio, si addormenta e cade nel fuoco -, la
colpa non può che essere del luogo, maledetto dagli spiriti.
Così alcuni iniziano ad andarsene, per essere poi seguiti da
molti altri. Qualche anno fa il governo thailandese e il
ministero per l'Ambiente, stanchi della continua distruzione
delle colline dovuta ai Lahu, hanno cercato di porre un
freno al loro perpetuo vagabondare, spesso respingendoli in
territorio birmano. |
YAO |
Gli Yao un tempo
abitavano alcune zone della Cina centrale, nelle province
dello Tzechuan e del Kieng-tsi. Sotto la pressione di
popolazioni vicine ostili migrarono verso sud (nel Guangxi),
stabilendosi in aree che oggi fanno parte della Birmania,
del Laos, del Vietnam e della Thailandia. In quest'ultimo
Paese vivono nelle province settentrionali, sulle zone
montuose di Chiang Rai, Chiang Mai, Lampang e Mae Hong Son,
e sono noti anche con il nome di Mien. Molti Yao, tuttavia,
continuano a vivere in Cina (circa un milione e mezzo), e
sono l'unico gruppo etnico del Nord della Thailandia ad
avere una tradizione scritta, riportata per mezzo degli
ideogrammi cinesi.
Quarto giorno - Il villaggio Yao è costituito da case che
poggiano sul suolo e da un piccolo laghetto al centro; le
note delle litanie buddhiste birmane fanno da sottofondo,
captate da una radio accesa. Esistono veri e propri ‘bagni’,
separati dalle abitazioni, e racchiusi in un paio di capanne
a sé. Anche qui i bambini giocano con ogni cosa: dal
maialino nero di casa - mentre mangia nella stessa ciotola
in cui, a orari diversi, si servono i cibi alle persone -, a
vecchie latte di sardine riciclate, usate come bicchiere e
secchiello per contenere la terra. Un altro bambino scala
una pila di canne di bambù, mentre un coetaneo si diverte a
giocherellare con dei fiori, strappati dalla pianta e
indossati sulle dita, a mo' di artigli. Una donna cura
l'infezione a un orecchio del suo figlioletto con un impasto
di erbe medicinali, e il bambino strilla sonoramente.
Gli abiti delle donne Yao sono caratterizzati da tessuti in
cotone nero o blu, decorati con una lunga stola di cotone
rosso - che cinge il collo - e con un ampio turbante. I
bambini più piccoli, invece, indossano colorati berretti
decorati da grandi pompon rossi. Tutti vivono in case
situate a livello del terreno, costruite in legno e bambù.
Al loro interno un'ampia sala è divisa in due ambienti - uno
per gli uomini, l'altro per le donne -, e le camere da letto
sono separate da alcune assi. In tutte le abitazioni c'è un
piccolo altare degli antenati, di fronte al quale si trova
una porta, riservata agli spiriti della casa: il loro
accesso è favorito da questa apertura a loro uso esclusivo.
Questa credenza negli spiriti, unita a quella negli
antenati, deriva dal taoismo, dal quale gli Yao, nel corso
del tempo, hanno sviluppato una religione particolare. Come
la maggior parte delle popolazioni del Nord della
Thailandia, gli Yao rispettano tutti gli spiriti, inclusi
quelli dei loro antenati, del Cielo, del Vento e della
Foresta. Credono che questi possano proteggerli e dare loro
prosperità, perciò fanno offerte in molte occasioni, come,
per esempio, quando i raccolti sono abbondanti o quando ci
si ammala. Le cerimonie di offerta, celebrate anche prima di
intraprendere un viaggio, comportano il sacrificio di un
maiale o di pollame. Dal momento che gli spiriti hanno un
ruolo centrale nella vita e nella morte di tutti, le figure
più importanti della tribù sono i praticanti di stregoneria.
Se ammalato, uno Yao preferisce senz'altro lo stregone alle
moderne medicine occidentali, prese in considerazione solo
qualora lo stregone si riveli inefficace. Esistono due tipi
di stregoni: il Toom Sai Kong, che si occupa del Grande
Spirito, e il Sai Ton, che bada ai riti minori. Il primo,
per essere considerato tale, deve godere di larga fama di
esperto in materia.
Gli Yao sono piuttosto liberali in materia di costumi
sessuali: un uomo e una donna, per convivere, non sono
obbligati a sposarsi, e cambiare amante, così come avere
figli illegittimi, è accettato da tutti. È tradizione che
l'uomo, qualora metta incinta una donna, debba pagare una
multa al capo del villaggio, consistente in una piccola
somma di denaro e un pollo.
Le cure mediche, perfino nelle tribù meno primitive, vengono
completamente ignorate durante la gravidanza. Al loro posto
il marito, consapevole della nascita imminente, fa delle
offerte allo spirito della casa - il Sam Dao -, e implora il
suo aiuto. Chiede che la moglie sia forte durante il parto,
che il bambino nasca sano e non abbia alcun handicap, e che
entrambi, madre e figlio, godano di un benessere generico.
Quindi l'uomo trasforma la casa in una specie di ospedale,
pronto per il parto: il pavimento viene rialzato, formando
una piattaforma, sulla quale pende una corda fissata
saldamente al soffitto. Questa servirà alla donna, alcuni
secondi prima del parto, per fare entrare una maggiore
corrente d'aria all'interno dell'abitazione, aprendo una
finestrella. Quando il bambino viene alla luce la levatrice
del villaggio, stesa sulla paglia, taglia con un coltello di
bambù il cordone ombelicale: verrà messo in un cesto e sarà
appeso a un albero a essiccare. Lo stregone ‘superiore’ è
responsabile anche di cerimonie quali il Pienhoong (Omaggio
agli Spiriti), e in casi di malattia grave.
La morte di uno Yao viene celebrata lasciando il corpo su
una barella dai tre ai cinque giorni se il defunto era
ricco, per uno solo se era povero. Dopo il bagno di rito, il
cadavere viene posto in una bara per essere sepolto o
cremato. La cerimonia viene tenuta in casa se il defunto è
morto al suo interno, altrimenti all'aperto, nel piazzale
del villaggio. La sepoltura o la cremazione vanno invece
assolutamente tenute al di fuori del villaggio, per
scaramanzia. Nello scegliere il luogo adatto alla sepoltura
o alla cremazione lo stregone lancia un uovo di gallina in
aria e, laddove cade, giaceranno il corpo o le ceneri |
LA
COLTIVAZIONE DEL PAPAVERO DA OPPIO |
Il campo di papaveri è
generalmente ben nascosto, anche se tutti sanno benissimo
dove, tra la vegetazione fitta, poco distante dal villaggio.
Le piante giovani vengono interrate tra agosto e novembre, a
un'altitudine che va dagli 800 ai 1300 metri. In dicembre il
papavero produce i fiori - bianchi e rossi - e i semi. I
petali iniziano a cadere dopo circa quattro mesi; segue
quindi la stagione della raccolta del lattice, tra gennaio e
marzo. È in questo periodo che il papavero viene intagliato
- dal basso verso l'alto -, per non più di tre volte (dopo
ogni taglio la qualità del lattice diminuisce). Il lattice è
quindi raccolto in piatti di latta o su cortecce di bambù,
ed è di colore bianco vivo. Lasciato coagulare per circa
quattro ore, si trasforma in oppio grezzo, di colore marron
scuro, colloso e appiccicoso come catrame. Bollito e
filtrato, solamente il 40% del raccolto rimane sotto forma
di oppio puro, da consumo: da dieci chilogrammi di oppio si
ottiene ‘appena’ un chilo di eroina. Il governo thailandese
sta tentando da anni - almeno ufficialmente - di sostituire
la coltura del papavero da oppio - dichiarato illegale nel
lontano 1959 - con altri tipi di coltivazione, ma con
scarsissimo successo. In certe zone isolate l'oppio è ancora
un prodotto di base, a volte utilizzato come moneta. Il
grosso degli introiti, fino ad anni fa, finivano perlopiù
nelle tasche di Khun Sa, il cosiddetto ‘Re dell'Eroina’.
Leader della Shan United Revolution Army (SUA), un esercito
privato che contava ben cinquantamila regolari armati
stanziati soprattutto in Birmania, Khun Sa proveniva dalle
fila dei nazionalisti cinesi, tradizionalmente
anticomunisti. Oggi, dopo il ritiro e la morte di Khun Sa –
nel suo villaggio, Ban Theuat Thai, gli è stato eretto un
monumento equestre e un mini-museo -, il controllo del
business è passato nelle mani di altri ‘generali’ del
narcotraffico, solitamente a capo di minieserciti etnici.
Ogni famiglia che vive nel Triangolo d'Oro viene controllata
dai guerriglieri-trafficanti, e gli enormi introiti del
commercio dell'eroina passano attraverso Hong Kong e Taiwan,
nelle cui banche vengono versati i proventi miliardari
guadagnati dai grandi trafficanti di mezzo mondo. Qualche
anno fa è stato avviato il cosiddetto ‘Progetto Reale
Thailandese’, voluto dallo stesso re – quando ancora era in
buone condizioni fisiche -, per introdurre colture
alternative. Nel Nord della Thailandia operano ventotto
stazioni di sviluppo, ove sono coltivati sperimentalmente
albicocche (donate dal Giappone), pesche e prugne (arrivate
dal Nord America), kiwi (Nuova Zelanda), pere (Taiwan),
verdure, cereali, legumi, spezie e fiori: tutte colture
redditizie, ma mai quanto quella dell'oppio. Il Progetto
Reale ha coinvolto 365 villaggi - per una popolazione totale
di circa 60.000 persone -, ove vengono inviati medici e
infermieri dell'ospedale universitario di Chiang Mai, i
quali trasmettono alle comunità tribali le nozioni
elementari di alimentazione e di pianificazione familiare.
Ogni anno l'esercito thailandese viene impegnato in battute
esemplari, largamente pubblicizzate dai media, di
distruzione dei campi di papavero. Ai telegiornali si vedono
soldati armati di machete che recidono le piante con aria
soddisfatta e vittoriosa, come se radere al suolo le
piantagioni su qualche chilometro quadrato risolvesse il
problema. Comunque, anche per quest'anno, come ogni anno, si
è preventivato un raccolto superiore al passato |
Pubblicato su
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